Leoni da tastiera

sylvestreAlto episodio di intolleranza ed odio su facebook. 

Lorenzo Tosa su Fabebook
Lui è Sergio Sylvestre, ha 30 anni, una voce pazzesca, un grande amore per l’Italia. Nel 2012 è arrivato da turista per una vacanza al Sud, e da allora non se n’è più andato, costruendo qui una importante carriera da solista che, in breve, gli ha fatto conquistare la vittoria ad Amici, il sesto posto a Sanremo e un disco d’oro, oltre a diversi premi e riconoscimenti.

Eppure ieri sera, prima della finale di Coppa Italia, all’Olimpico, è bastato che, per un paio di secondi, dimenticasse le parole dell’Inno d’Italia, e un pugno chiuso, per scatenare una violentissima gogna social nei suoi confronti, tra razzismo e bodyshaming puro.

“Vergogna”. “Questo le parole non le ha trovate perché se l’è mangiate.” “Quel pugno chiuso te lo devi infilare nel c…” “Pagatelo con un pugno di monetine”. “Sei un insulto agli italiani.” “Mandiamolo a raccogliere pomodori a questo qui”, e via, sempre più in basso, verso un abisso di odio e ignoranza.

E invece questo ragazzo qui ieri ha onorato l’Italia infinitamente di più delle centinaia di leoni da tastiera incapaci di emettere un suono che non siano rutti e peti. Lo ha fatto con estremo rispetto per il Paese che lo ha abbracciato e gli ha dato fama e successo, sbagliando per l’emozione e riprendendosi l’istante dopo, arrivando fino alla fine, perché è così che fanno gli artisti. E Sergio Sylvestre un grande artista lo è davvero.

Non ti curare di loro, Sergio, l’Italia è molto migliore di questa.

Fabio Salamida su Facebook

Quelli che oggi stanno insultando Sergio Sylvestre perché ieri si è emozionato di fronte a uno stadio completamente vuoto e ha sbagliato una strofa dell’inno di Mameli, sono la parte più becera del Paese.

Per loro l’inno nazionale è solo un pretesto: spesso neanche ne conoscono le parole (in realtà spesso neanche sanno parlare in italiano) e tifano un personaggio ridicolo che quell’inno lo fece ballare in spiaggia da cubiste in costume leopardato tra le urla scomposte e i saluti romani di subumani ubriachi.

Per loro il problema non è l’inno cantato male, ma il fatto che sia stato cantato da un musicista di origini afroamericane, che le sue note e le sue parole si siano unite alle tante voci che chiedono giustizia per le violenze che ogni giorno, dall’altra parte del mondo, subiscono milioni di persone, discriminate per il colore della loro pelle e per la loro condizione sociale.

Prima di iniziare, il cantante aveva detto: «Sarà un onore esibirmi sulle note dell’inno nazionale del Paese che mi ha accolto a braccia aperte e che è diventato la mia casa».

E il Paese che lo ha accolto a braccia aperte, il Paese che oggi è la sua casa, gli ha perdonato l’errore. Il resto è fastidioso rumore di fondo.

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