Da collettiva.it
Nel 1960, dopo l’eccidio di Reggio Emilia in cui morirono cinque lavoratori, viene pubblicato un audio che registra l’accaduto. Lo scrittore, colpito dalla freddezza di quella carneficina, lo ascolta e scrive un pezzo che fotografa i rischi corsi dalla democrazia
In solidarietà con quanto successo a Genova, Roma e Licata, il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia è indetto lo sciopero generale. La polizia spara nuovamente contro i dimostranti e cinque persone rimangono a terra uccise: Lauro Farioli (22 anni), Ovidio Franchi (19), Emilio Reverberi (39), Marino Serri (41) e Afro Tondelli (36). Tutti e cinque operai e comunisti, alcuni ex partigiani. A breve distanza di tempo, la rivista Vie Nuove pubblicherà un disco con la registrazione sonora degli scontri. Si ascoltano i colpi dei lacrimogeni e delle pistole, le raffiche dei mitragliatori, le sirene della Celere e delle ambulanze. Dell’episodio dirà Pier Paolo Pasolini: “Spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo. Che è il più terribile – e anche profondamente bello – che abbia mai sentito” (dalla rubrica Dialoghi con Pasolini, Vie Nuove a. XV, n. 33, 20 agosto 1960).
“Non so se per il disco di Reggio Emilia si possa parlare di iniziativa: o per lo meno di normatività di tale iniziativa – scriveva il poeta – Esso è stato un puro caso. Me lo scrive la direttrice di Vie Nuove: “Io ebbi a Reggio Emilia questo nastro da un commesso di un negozio di tessuti, che si era portato lì il registratore, per registrare il comizio: e, invece, finì con il registrare l’agghiacciante sparatoria, non una guerra, ma una fredda carneficina”. Ora io mi auguro che simili carneficine non si ripetano più, mai più, nella nostra vita, che è stata tutta un’esperienza di carneficine: e spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo. Che è il più terribile – e anche profondamente bello – che abbia mai sentito”.
Lo scrittore analizza l’audio con attenzione: “Quello che colpisce soprattutto, ascoltando questo disco – oltre all’emozione, oltre la pietà – sono due fatti. Il primo è la freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento. Questo è già stato notato da tutti: e ora capisco come uno dei morenti abbia potuto pronunciare quella frase: ‘Mi hanno ucciso come sparassero a caccia’. Proprio in questi giorni è di scena Eichmann: egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti che hanno sparato e ucciso saranno simili a quelle già ben note, pur con le debite differenze di atrocità: anch’essi parleranno di ordini, di dovere, ecc. E sono di questi giorni anche certi documenti pubblicati da Paese Sera a proposito delle omissioni del Vaticano durante il periodo delle stragi naziste contro gli ebrei. C’è in tutti questi fatti, un connettivo che li unisce, una atroce somiglianza. È vero che, nello stesso tempo, la lotta popolare di Reggio, di Genova, di Roma autorizza anche a rinnovare e sentire con maggiore forza quella speranza che sembrava perduta dai giorni della Resistenza: ma ciò non toglie che bisogna essere lucidi e spietati nel valutare il pericolo. Il capitalismo ha raggiunto in questi giorni lo stesso grado di potenza e di ferocia che aveva raggiunto prima della guerra: ed era più pericoloso, perché i moralisti-cattolici sono meno idioti dei fascisti”.
Il secondo fatto che colpisce Pier Paolo Pasolini è poi: “la sensazione netta che a lottare non siano più dei dimostranti italiani e una polizia italiana, in un doloroso ma normale, direi, momento del processo di evoluzione della classe operaia: come accadeva per esempio ancora negli eccidi del primo dopoguerra, a Melissa o a Modena. Si ha l’impressione che si trovino ora di fronte due schiere quasi estranee: la popolazione di una città che protesta contro delle truppe occupanti. I poliziotti che sparano non sembrano nemmeno degli italiani, se questa categoria ha ragione di essere almeno come dato sentimentale. Tra i lavoratori e la polizia c’è un salto di qualità, di nazionalità. Al tempo di Melissa e di Modena, la polizia non era stata ancora riorganizzata: era stata messa insieme un po’ confusamente, era una sezione della ‘ricostruzione’: essa difendeva genericamente un ordine costituito secondo un canone di lotta tradizionale, che la Resistenza aveva alquanto fiaccato. Ora invece la polizia è perfettamente organizzata, per opera di Scelba e di Tambroni: è un corpo ponderoso, deciso, politicamente orientato e cosciente. Inoltre, come documenta un giornalista, non certo marxista sull’Europeo, Renzo Trionfera, esso è direttamente legata al Vaticano. La polizia italiana, insomma, si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito?”
“Io, per me, sono alieno dalla violenza – conclude Pasolini -: e spero, lo ripeto, che mai più si debba scendere in piazza, a morire. Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze e di menzogne crollerà: com’è crollata la legge-truffa, com’è crollato il governo Tambroni. Gli italiani, per una parte, sono ingenui e politicamente immaturi: ma sono naturalmente intelligenti e si stanno lentamente rendendo conto da che parte sta la ragione. Le nuove leve di giovani lo dimostrano”.