Conte ottiene la fiducia anche al Senato ma è un governo di minoranza

La crisi più pazza del mondo finisce anche peggio di come era iniziata. Con un “Var” che fino all’ultimo tiene il Paese con il fiato sospeso per due senatori – Ciampolillo e Nencini – che votano Sì oltre l’ultima chiama ma sul filo dei secondi. Riammessi in extremis dalla presidente Casellati, non cambiano la sostanza politica: il governo la scampa ma per il rotto della cuffia. I sì sono 156, 140 i no, 16 i renziani astenuti, 8 gli assenti.
Da repubblica.it

Sul filo, ma “ancora vivo”. Non sono ore tranquille, per Giuseppe Conte. È sopravvissuto all’Aula del Senato. Ha davanti “due settimane di fuoco”, in cui provare a far nascere un gruppo centrista e organizzare il rimpasto. Senza “ter”, nonostante le pressioni. Montagne da scalare, ma con la certezza di averla scampata. Ne parlerà oggi al Colle, che intanto prende atto del voto.
Poteva “andare meglio”, certo. Gli avevano promesso un paio di voti in più. Ma l’avvocato sa anche che sarebbe potuta andare molto peggio. Con numeri ancora precari, c’è da rimboccarsi le maniche e “rendere ancora più solida questa maggioranza, perché l’Italia non ha un minuto da perdere”. Il piano di Conte non può prescindere da un passaggio fondamentale, a questo punto: deve nascere, e in fretta, il gruppo centrista a Palazzo Madama. Alla Camera è solo questione di giorni: Bruno Tabacci ha radunato i disponibili. Non è un problema solo estetico, per mostrare al mondo una nuova maggioranza “derenzizzata”. No, è una questione di governabilità: soltanto con la costituzione di un gruppo si potranno riequilibrare a favore dei giallorossi le commissioni parlamentari del Senato. Senza il sostegno di Italia Viva, alcune sono in mano alle opposizioni. Due, in particolare, preoccupano: Bilancio e Affari costituzionali. Nella prima deve tra l’altro transitare il Recovery Plan, nella seconda la riforma della legge elettorale in senso proporzionale.

Per costruire il gruppo popolare e socialista, il premier continua a impegnarsi in prima persona. Lavora ai fianchi l’Udc e Italia Viva. La motivazione utile a guadagnare i giorni preziosi per realizzare questo progetto c’è già: il decreto ristori. Nel frattempo, sarà anche stilato un patto di legislatura, fissando tre o quattro riforme chiave per gli ultimi due anni di legislatura. Tra queste, quella fiscale e della legge elettorale. Soltanto in seguito, giurano da Palazzo Chigi – e quindi non prima di febbraio – si aprirebbe la partita del rimpasto di governo. Rimpasto e non Conte ter, perché Conte non intende dimettersi. Per diverse ragioni.

A sconsigliare il passo indietro c’è innanzitutto la necessità di evitare la liturgia della crisi formale, che inchioderebbe l’esecutivo a un nuovo rodeo alle Camere, in un momento duro per il Paese. Secondo: si preferisce non certificare con enfasi il passaggio di “responsabili”, che Palazzo Chigi e il Pd sperano invece di far dimenticare presto. Terzo: meglio non spezzare equilibri già precari, soprattutto nei 5S. E invece muoversi con interventi mirati, sfruttando i posti lasciati liberi da Iv. Magari allargando la compagine da 60 a 65 posti, con un decreto che verrebbe motivato dalla necessità di introdurre il sottosegretario ai Servizi.

La strategia della cautela pare sia stata consigliata da Franceschini. Forse non dispiace neanche al Colle. “Abbiamo scongiurato un salto nel buio”, fa sapere Zingaretti. È vero, i gruppi grillini sono spaccati, e c’è chi chiede la testa di qualche ministro. E certo, la pressione delle truppe parlamentari dem per non escludere il “ter” esiste, anche per coinvolgere Graziano Delrio e Andrea Orlando. Ma si può fare parecchio anche con un semplice rimpasto. Per Orlando, ad esempio, si ipotizzano due caselle: Interno o Giustizia, in questo secondo caso dirottando Alfonso Bonafede ai Servizi. E poi c’è l’Agricoltura, già promessa all’Udc se riterrà di entrare in maggioranza con i suoi tre senatori, portandosi dietro anche un altro parlamentare berlusconiano. E ancora, ballano il ministero della Famiglia e un posto da sottosegretario agli Esteri. Senza dimenticare anche l’ipotesi di sdoppiare qualche ministero, ad esempio Infrastrutture e Trasporti, ma anche Rapporti con il Parlamento e Riforme, affidando queste ultime al Pd.

Tutto, piuttosto che tornare a trattare con Renzi. Il leader lascia per un giorno intero la maggioranza sul filo. A metà pomeriggio è il Pd – avvertito del rischio che Italia Viva possano cambiare all’ultimo l’orientamento e passare dall’astensione al voto contrario – a contattare l’avvocato pregandolo di non calcare troppo la mano nella replica. L’obiettivo è non dare ragioni al leader di Rignano per rompere. Renzi ribadisce infine la linea della neutralità. Su cui resterà comunque per poco tempo. Lo spiega anche a Matteo Salvini, nel corso della giornata. E dopo aver scartato con il leghista la possibilità di un blitz sulla fiducia, si prepara a dare vita a un Vietnam nelle commissioni chiave. Sulla giustizia, ad esempio. Prima c’è, già oggi, il voto sullo scostamento.

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