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L’amicizia fraterna tra Villaggio e De André da cui nacque una delle canzoni più belle di Faber
Di Federica Seneghini
Novembre 1962. In via Bovio, ad Albaro, uno dei quartieri più belli di Genova, due ragazzi se ne stanno buttati sul divano. Uno dei due tira fuori la chitarra. Prova qualche accordo. È Fabrizio De André. Ha 22 anni. Ha scritto qualche canzone ma lo conoscono in pochi.
La Canzone di Marinella, il brano che l’avrebbe reso famoso, sarebbe arrivato solo nel 1969. L’altro ascolta. Tira fuori un taccuino, prova a buttare giù qualche parola. È Paolo Villaggio, ha 30 anni. Nemmeno lui è molto conosciuto. Il suo bestseller Fantozzi sarebbe arrivato solo nel 1971. Fabrizio suona «una specie di inno da corno inglese». E Paolo inizia a scrivere il testo di quella che sarebbe diventata una delle canzoni più belle di sempre. Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers.
Amici, quasi fratelli. Paolo e Fabrizio si erano conosciuti molti anni prima in montagna, a Cortina, nel 1948. Villaggio era «un ragazzino incazzato che parlava sporco», diceva De Andrè. «Gli piacevo perché ero tormentato, inquieto ed egli lo era altrettanto, solo che era più controllato». Ribelli, in due famiglie bene. Non si lasciarono più.
Uno sampdoriano (Villaggio), l’altro genoano. In realtà erano più le cose che li univano: gli studi al classico — anche se in due scuole diverse («il D’Oria» Villaggio, «il Colombo» De André) e in Giurisprudenza, che entrambi mollarono a metà. E poi: le serate nei locali dei vicoli di Genova. Fu Villaggio a dargli il soprannome di Faber, un omaggio a quei pastelli che il cantautore amava.
Prima di diventare famosi per un periodo suonarono insieme sulle navi da crociera. «Fabrizio attaccava con le prime note de Il Testamento e davanti a una platea formata principalmente da anziani, ci accorgevamo che quei vecchi non erano ancora morti», raccontò Villaggio al Messaggero.«Ce ne accorgevamo perché alle prime parole di Fabrizio, ai primi versi, tutti si toccavano vigorosamente le palle».
Vissero insieme «varie stagioni della vita». «La fame». «La Genova ancora con l’odore dei pitosfori». «De André era una persona molto sensibile e ovviamente quando si è molto amici, soprattutto d’infanzia, si parla della morte come di un fatto lontano, del tutto improbabile».
Successe prima del previsto. Nel 1999 Fabrizio si ammalò. Negli ultimi due mesi, i due non ebbero mai più il coraggio di incontrarsi, né di vedersi, «perché questa volta non era un gioco, non era letteratura, era la terribile realtà», disse Villaggio.
L’11 gennaio il cantautore morì e Genova rimase in silenzio. Sugli autobus, sui banchi di scuola, nei mercati, tutti dicevano solo: «È morto Fabrizio». Quando il feretro arrivò alla basilica di Carignano chinarono tutti la testa. Senza parole. Erano nel piazzale da ore ad aspettare, nonostante il vento e il freddo di gennaio.
C’era anche Villaggio. Che quel giorno, «per la prima volta», ebbe il sospetto che lui «quel funerale, di quel tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti», non l’avrebbe mai avuto. «E a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: “Guarda che ho avuto invidia, per la prima volta, di un funerale”».