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Fantasmi a Roma
(Italia, 1961, colore, 102’)
Regia: Antonio Pietrangeli
Soggetto: Ennio Flaiano, Antonio Pietrangeli, Ettore Scola, Ruggero Maccari, da un’idea di Sergio Amidei
Sceneggiatura: Ennio Flaiano, Ruggero Maccari, Antonio Pietrangeli, Ettore Scola
Cast: Marcello Mastroianni (Reginaldo/Federico/Gino); Belinda Lee (Eileen); Sandra Milo (Flora); Eduardo De Filippo (Principe Annibale di Roviano); Vittorio Gassman (Il Caparra); Tino Buazzelli (Fra’ Bartolomeo); Claudio Gora (Ingegner Telladi); Ida Galli (Carletta); Franca Marzi (Nella); Lilla Brignone (Regina); Enzo Maggio (Fricandò); Claudio Catania (Poldino); Michele Riccardini (Il portinaio); Bruno Scipioni (Otello), Duilio D’Amore (Sor Augusto); Grazia Collodi (Marisina); Enzo Cerusico (Il pappagallo); Alberto De Amicis (Direttore del City Song); Mario Maresca (Randoni); Anna Maria Di Pace (Salustri); Graziella Galvani (Maestra); Luciana Gilli (La nipote del garibaldino); Antonella Della Porta (Seconda suora); Nadia Marlowa (Moglie alla finestra); Antoinette Weinen (Prima suora); Elvira Tonelli (Terza suora); Dino Curcio (Paolo).
Produttore: Franco Cristaldi per Lux Film, Vides Cinematografica, Galatea
Fotografia: Giuseppe Rotunno (Technicolor)
Montaggio: Eraldo Da Roma
Musiche: Nino Rota
Scenografia: Mario Chiari, Vincenzo Del Prato
Arredamento: Enzo Eusepi
Costumi: Maria De Matteis
Trucco: Otello Fava, Goffredo Rocchetti
Aiuto regia: Armando Crispino
Distribuzione: Lux Film
Sinossi e critica: Il principe Annibale di Roviano vive da squattrinato in un antichissimo palazzo al centro di Roma che ha degli ospiti particolari: quattro fantasmi di antichi Roviano, morti di morte violenta. Sono il ghiotto Frà Bartolomeo, morto nel Seicento per aver mangiato polpette avvelenate; il casanova Reginaldo, caduto dal balcone mentre fuggiva da un’amante; la romantica Flora, suicida per amore; il piccolo Poldino, fratello maggiore del principe e morto per l’esplosione di una “castagnola”. Il caparbio principe resiste a tutte le offerte di un ingegnere che, per conto di una società di palazzinari, vorrebbe compare il palazzo per demolirlo e costruirci un moderno supermercato; ma la sua morte accidentale per lo scoppio di uno scaldabagno apre la strada alla speculazione. Anche perché il suo erede, il debole (e un po’ debosciato) Federico, succube della bella e volgare spogliarellista Eileen, non vede l’ora di vendere per intascare un po’ di sospirati milioni. Ai quattro fantasmi tocca così trovare una soluzione per evitare lo sfratto: chiedono aiuto al Caparra, fantasma pittore e bestemmiatore, chiamato a dipingere un affresco in una notte nel solaio del palazzo Roviano. Fantasmi a Roma è uno dei vertici della nostra commedia e senza ombra di dubbio il miglior film di Antonio Pietrangeli (1919-1968), regista insicuro e perfezionista che lasciò un segno importante nel cinema italiano degli anni ’60. Un’opera sui generis ed originale, fondamentale per capire quanto i nostri autori di commedie dell’epoca avessero il gusto della sfida: solo la commedia all’italiana può utilizzare un film di fantasmi per fare la satira della speculazione edilizia. Nel rispetto dell’elemento fiabesco, rievocato con una magistrale e fastosa fotografia a colori pastello di Rotunno ed un abilissimo uso di scenografie ed ambientazioni nella Roma centrale più appartata, polverosa e segreta (siamo nei pressi di via della Pace), che danno alle inquadrature una dimensione di antica stampa con connotazioni quasi gotiche; ma anche con acume e corrosività nel confronto spietato tra i vecchi valori di una Roma ormai scomparsa, incarnati dalla signorilità e dall’onestà del principe Roviano, e i disvalori del boom, del nuovo che avanza: la corruzione, la volgarità, la stupidità dei tempi moderni. Più che ad un intreccio piuttosto semplice, il film deve la sua riuscita alla precisione ed al nitore con cui sono circostanziati i personaggi – curati fino all’ultimo dettaglio, senza lasciare sfocato nemmeno i personaggi minimi: memorabili le incursioni di Regina, la prostituta impazzita e devastata da un amore finito male, irriverente di ogni istituzione, ma rispettosa della nobiltà d’animo del principe – e soprattutto alla coerenza ed alla cura con cui sono evocati e definiti i fantasmi, parte di un sistema perfettamente elaborato: costretti ad apparire perché vittime di morte violenta, incorporei ma sensibili alle emozioni ed alla fisica dei corpi, fissati eternamente con la fisionomia che avevano al momento del trapasso: e così il piccolo Poldino, morto bambino, tale rimane nonostante sia il fratello maggiore del sessantenne Annibale; il seduttore Reginaldo gira con una sola scarpa, perché l’altra l’ha persa durante la fuga fatale; la svampita Flora ogni sera si tuffa nel Tevere dove terminò volontariamente i suoi giorni. Il film nasce da una lunga ricerca di Sergio Amidei sui fantasmi romani, come ricorda Ettore Scola: «Amidei aveva raccolto molte testimonianze del modo di rapportarsi ai fantasmi, al centro e al Nord. I vecchi, le vecchie romane, avevano una concezione dei fantasmi che corrispondeva alla loro cultura, per cui a Roma si sapeva che c’era un monaco che nel ‘300, nel ‘400, girava per le case e che era goloso di pasta e ceci; quindi gli preparavano pasta e ceci perché a Roma è una dimostrazione di amicizia, di convivialità. […] Con Amidei si parlava di questo prima ancora di decidere il tipo di storia che poi Maccari e io, che siamo rimasti come sceneggiatori con Pietrangeli, abbiamo definito»[1]. Scola, nei suoi ricordi riduce drasticamente l’apporto di Flaiano: «L’avrò visto un paio di volte, a casa di Pietrangeli: ci divertì molto, era un uomo davvero affascinante, pieno di interessi, ma non si parlò neppure di sfuggita di Fantasmi a Roma». Grande evidenza ha un cast di altissimo livello, in cui spicca un Mastroianni in triplice parte, ma il fascino del film è amplificato dalla capacità di Pietrangeli di creare un’atmosfera suggestiva e malinconica, ironica e garbata, molto teatrale (anche nella recitazione), in cui l’incanto delle immagini (ed alcune sono davvero incantevoli: il corpo di Flora che affiora dal fiume, l’apparizione di Poldino ad Annibale in punto di morte, la piccola trattoria popolare frequentata dal principe) è ottenuto con morbidi e lunghi movimenti di macchina e sostenuto da uno struggente tema musicale di Rota, ma può interrompersi per improvvisi colpi di genio satirici (il garage del plastico del supermercato sempre più “capiente” man mano che si scala la gerarchia dei notabili da oliare) o gag esilaranti (il critico d’arte gettato dalle scale dall’esasperato Caparra, continuamente scambiato per Caravaggio). Certi film però sono in possesso di carte vincenti, inizialmente trascurate, ma che nel tempo acquistano sempre più valore fino a divenire l’elemento centrale dell’intera opera. È il caso di Fantasmi a Roma, dominato da un Eduardo in stato di grazia (e sicuramente alla sua migliore prova al cinema): è lui a dare il tempo, l’eleganza, la profondità giuste non solo al suo personaggio ma a tutto il racconto, che sembra emanare la sua stessa caparbia e scabra cordialità. E Pietrangeli lo asseconda e lo coltiva con grande intelligenza, fin dal lungo soliloquio iniziale (costruito con un magistrale pianosequenza) di Eduardo, che sproloquia con un pappagallo imbalsamato, si aggira assonnato per le stanze della sua abitazione fatiscente ed infine si addormenta leggendo un libro giallo di costernante idiozia (“Che fa Bobo a Malibù?”): una sequenza che evoca mistero, intimità, senso del tempo perduto ed è di irresistibile comicità.
(Scheda tratta da LA COMMEDIA ITALIANA IN 160 FILM (1948-1980) – Alberto Pallotta e Andrea Pergolari – Edizioni Sabinae 2022)