Nei giorni scorsi è venuto a mancare Bruno Pizzul
Noto telecronista sportivo, conosciuto soprattutto per aver fatto la telecronaca alla Nazionale di Calcio.
La pagina facebook Gruppo Zeman lo ricorda così
BRUNO PIZZUL, SCUSA E GRAZIE
Durante gli anni del liceo, abbastanza sorprendentemente, vinsi un paio di contest letterari. In uno di essi allo studente era chiesto di redigere un pensiero sulla propria fede calcistica, meglio se partenopea.
Ebbene, il premio che conseguii mi consentì di accedere ad una serie d’iniziative tra cui, insieme ad altri compagni di scuola, la partecipazione ad una puntata di Radio Marte, all’epoca radio ufficiale della Ssc Napoli. La trasmissione inaugurava la vigilia di un imminente Napoli – Udinese a suo modo storico.
Il Napoli di Mazzarri si era intrufolato nella lotta scudetto omaggiando l’epopea dell’under dog. E l’Udinese di Guidolin (che ambiva alla qualificazione Champions unendo la “scoutizzata” multietnicità all’abbacinante abbondanza di talento di cui lo scugnizzo napoletano Totò Di Natale e Alexis Sanchez erano portabandiera) rappresentava importante spauracchio.
L’interscambio dialettico tra noi ragazzi napoletani, più o meno interessati alle sorti della squadra cittadina, e i referenti da Udine in collegamento telefonico caratterizzò il tenore della live radiofonica, finché dall’altra parte del filo diretto non intervenne Bruno Pizzul. Ricordo benissimo quel giorno, non solo perché godetti nel giocare alla radio, ma anche per la presenza dall’altro capo della cornetta di un’autentica leggenda del calcio italiano.
E all’Udinese Pizzul teneva, ne era tifoso anche perché ne era stato calciatore. Fu l’ultima squadra della sua carriera. Lui, friulano doc, goriziano per la precisione, aveva imparato ad amare il Sud. D’altronde erano risaputi i trascorsi calcistici di Pizzul a Catania (e poi anche ad Ischia prima di rimpatriare al Nord), forse i più importanti della sua vita da giocatore.
La giornalistica e umana bonomia lo rendeva intellettualmente onesto e privo di pregiudizi. Della stessa pasta e scuola di Minà appariva. E infatti come Minà aveva subito il fascino del Toro e non della Juve. Questione di sentimenti, di ideali.
Commossi i suoi racconti del Napoli di Maradona: “c’è un buco per Alemao” è una frase che riecheggia in ogni tifoso partenopeo che abbia un minimo di contezza della finale di Coppa Uefa che gli azzurri vinsero a Stoccarda. Io una bolgia come il San Paolo di quegli anni non l’ho più rivista, diceva. Per una partita di calcio non ho mai assistito ad un esodo come quello napoletano in terra tedesca, aggiungeva.
Ponderate, giammai provocatorie, le sue memorie della semifinale mondiale Italia – Argentina, disputatasi all’allora San Paolo, con una città che ancora non si sa se divise il suo cuore a metà tra Maradona e l’Italia. Una constatazione quando sosteneva che Zico calciava le punizioni meglio di Maradona. Mica la vile strumentalizzazione di una divinità terrena.
La maestria nel gestire il caso Heysel, che suo malgrado si trovò ad affrontare in qualità di unico inviato Rai, educa tutt’oggi centinaia di addetti ai lavori alla gestione della contingenza e dell’imprevisto quantunque tragico e luttuoso.
E poi parlare con Bruno Pizzul rappresentava una forma di riconnessione alla mia infanzia dove certe passioni principiavano a perdere il fiabesco candore. Il rigore di Totti contro l’Olanda e la beffa al golden goal di Trezeguet, che Pizzul e Bulgarelli commentarono con una enfasi quasi sussurrata sia nella gioia che nel dolore, cementarono in qualche parte del mio cervello le facce tifose di mio padre e di mio nonno.
Non solo: due anni più tardi, costretto ad una noiosissima clausura causa varicella, era la squillante benché elegante voce del commentatore goriziano ad accompagnare l’ahinoi indimenticabile Italia – Corea targata Byron Moreno. Attaccato al televisore non riuscivo a credere che nonostante lo scorrere dei minuti il risultato fosse ancora inchiodato sullo 0-0. “Nonno i coreani non hanno mai passato la metà campo”.
Eppure, 36 anni dopo, da Bulgarelli in campo a Bulgarelli al fianco di Pizzul in postazione formando uno dei primi binomi della telecronaca sportiva italiana, dall’Inghilterra al Giappone, i coreani risultarono indigesti.
Più l’Italia sprecava occasioni e subiva ingiustizie arbitrali, più cresceva l’impaziente stizza di Pizzul al punto da tradire il suo infallibile aplomb che non aveva demorso neanche quando Aldo Serena tirò il suo rigore in pancia a Goycochea o quando Baggio centrò qualche razzo missile che stava attraversando il cielo di Pasadena.
Discorrere di calcio con Pizzul trasportava l’interlocutore in una dimensione alternativa, che ne so, anche in una cucina ruspante di uno di quei casolari che oggi il capitalismo ha trasformato da casale di campagna in villa per eventi da un milione di euro o giù di lì.
E in tale sala da pranzo si sarebbe potuto tranquillamente bere e parlare di calcio, di vino, di cucina, di viaggi, di personaggi famosi della radio e della tv del cui indicibile era possibile ridere al riparo da orecchie indiscrete.
Ci parlai un quarto d’ora. E mi trattò come Sergio Tavcar. E non ne capivo il motivo visto che ero abituato al più viscido “chi sono io e chi sei tu” del giogo borghese di cui era intriso il liceo classico che frequentavo.
Forse avevo appiccicato addosso fin troppo visibilmente l’etichetta di estraneo in terra straniera del quale poter approfittare, visto che a differenza di molti compagni di certe protezioni settarie o sinallagmatiche non ho mai goduto, non lo so, ma in una sorta di nemesi della mia vita il tecnico del suono, che con noi e il conduttore stava presidiando la puntata, iniziò a marcarmi stretto: “chiedigli questo, chiediglielo, avanti”.
Stavo portando a termine la conversazione con Bruno Pizzul come un giornalista professionista meglio non avrebbe saputo fare, quando cedetti all’assillo del fonico e chiosai domandando a Pizzul quanto gli fosse pesato non raccontare un titolo iridato dell’Italia e quanto gli dispiacque che su di lui qualcuno avesse quindi malignato circa il suo non portare molta fortuna alle spedizioni azzurre.
Che il rapporto tra l’Italia e Pizzul rappresentasse amore tormentato l’ultima telecronaca della carriera di Bruno Pizzul ne fu emblema. Confine istriano. Nonostante i moniti di Pizzul, la federazione italiana decise di ospitare al Nereo Rocco di Trieste la da poco indipendente Slovenia.
– Certo revanchismo scorre carsico, pronto ad eruttare se qualcuno preme il pulsante sbagliato -.
Così, in nome di vecchie questioni irrisolte, la partita divenne un inferno in campo e sugli spalti. La Slovenia vinse per 0-1. Le brutte figure dell’Italia del Trap continuarono. Ma Bruno no, non avrebbe proseguito, disse ufficialmente addio, soprattutto a quell’Italia che lo aveva reso famoso ben più dei club ma dalla quale, a parte la fama, aveva ricevuto poco altro.
Ad ogni modo, giustamente, Pizzul redarguì l’ingenuo sedicenne che a sua volta manipolato aveva salato ferite ancora aperte. Infine chiuse la telefonata senza recedere dalla solita cordialità.
Non ho particolari rimorsi nella mia vita. L’aver tuttavia rovinato l’unica occasione per parlare di calcio con Bruno Pizzul è un rimorso grande e obliquo.
Non servirà a niente ma posso soltanto aggiungere “scusa e grazie, Bruno” per ogni “la palla lambisce il palo” e per ogni “Baggio, Baggio” o “Roberto” e dopo ancora “Totti, Totti”, per tutte le emozioni gettate al vento di una spontaneità che ha sempre soffiato sui mari della signorilità.