50 anni senza Pasolini

pasoliniIl 2 novembre del 1975, all’Idroscalo di Ostia, veniva ucciso il regista e poeta Pier Paolo Pasolini. Un omicidio dai risvolti ancora non del tutto chiariti cancellava dalla scena culturale italiana, a soli 53 anni, uno dei maggiori intellettuali del XX° secolo: poeta, drammaturgo, regista, scrittore, giornalista, sempre uomo scomodo e controcorrente.

 

Proponiamo alcuni stralci di un articolo pubblicato dal Prof. Gabriele Ragogna sul sito Bertoni Udine, in ricordo di Pierpaolo Pasolini

In molti contesti sociali viene più accettato e apprezzato chi non fa mai rumore, chi sta sempre supinamente in silenzio rispetto a chi sa dire anche un “no” motivato. È questo il male da cui Pasolini vuole metterci in guardia.

Essere, non apparire

Ancora due massime sul valore della coerenza morale senza ipocrisie e finzioni.
“Lo sapevi, peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare”.

“Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù”.

In una società che sembra spesso premiare il mito del successo a ogni costo, celebrando l’uomo vincitore ed emarginando i deboli e coloro che sono considerati “perdenti”, Pasolini tesse invece l’elogio della sconfitta guadagnata con onestà senza piegarsi alla logica dei potenti e del compromesso etico.

Ritenersi vincitori anche quando si perde può apparire un paradosso, ovvero letteralmente ciò che va contro l’opinione comune e l’apparenza (dal greco “pará” e “doxa”). Pasolini amava, come Socrate, i paradossi, poiché essi scuotono le coscienze e ci spingono a interrogarci e a non accontentarci di risposte banali e rassicuranti per la loro stessa facilità.

Su questa medesima linea si pone l’affermazione per cui commettere peccato è soprattutto non fare il bene, ancor peggio che commettere il male.
Uscendo da una visione farisaica del concetto di “peccato”, spesso contornato da un’idea moralistica anziché morale, Pasolini ci invita a riflettere su cosa siano il vero male e il vero bene. È sufficiente non commettere il male per avere una coscienza in pace, per ritenersi buoni? Evidentemente no: la vera sfida è avere il coraggio di agire per il bene. L’etica è attiva (“io faccio”), non passiva (“scelgo di non fare”).

Saper perdere onestamente: elogio della sportività

L’insistenza con cui Pasolini ritiene che non sempre sia importante vincere a tutti i costi, se questo significa venire a patti coi propri valori di onestà e rispetto verso se stessi e il prossimo, forse gli deriva anche da una sua passione spesso poco conosciuta e tenuta quasi segreta (forse perché anch’essa andava contro l’immagine tradizionale di intellettuale lontano dalle passioni popolari e men meno interessato allo sport).

Questa grande passione pasoliniana fu il calcio.
Lascio questo ultimo pensiero, rivolto in particolare ai tanti nostri studenti che amano questo sport.

“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”.

 

Concludiamo con alcuni versi della canzone “A Pa’” di Francesco De Gregori.
“E voglio vivere come i gigli nei campi / come gli uccelli del cielo campare / voglio vivere come i gigli nei campi / e sopra i gigli dei campi volare/ a Pa’ / a Pa’ /”.

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