Arce. C’era una volta la pizzeria Gemma

Dal profilo Facebook di Pierluigi Gemma. 

Oggi ripropongo uno dei miei racconti a cui sono più affezionato. Mi pare che acquisti sempre più attualità e non è un bene per certi aspetti. La goliardia di un tempo, un paese che non c’è più e che è cambiato, come noi del resto. Gli affetti più cari. C’era una volta..

Più di una pizzeria

Non era una pizzeria: era, per tutti, la pizzeria. Un paese, in genere, non offre tutte queste possibilità di svago, di autentica socializzazione, di vera aggregazione collettiva. Quel locale, per l’appunto, andava a soddisfare tutte queste esigenze. Una pizzeria, di regola, esaurisce la sua funzione nella vendita della pizza e delle bevande. La pizzeria Gemma, invece, era un affresco multiforme e variopinto di quel paese, ne aveva assunto le sembianze, ne aveva assorbito gli umori, catalizzando l’attenzione dei personaggi più illustri e pirotecnici della comunità. Ecco perché, fuori di retorica, la pizzeria ti deliziava il palato, ma ti consentiva anche di vivere uno spaccato sociale che nei decenni successivi, quelli della società parte digitale parte triste, nessuno avrebbe più vissuto almeno a quella intensità. Oggi, gli esercizi commerciali in genere sembra che vogliano venderti il prodotto in una frazione di secondo e, con la stessa velocità, sbolognarti per non intralciare. Terminato il campionario delle frasi fatte “Come stai, tutto bene, che brutto tempo, che freddo, che caldo”, ognuno torna a correre verso non si sa bene cosa. All’epoca della pizzeria “Gemma”, la tecnologia che conosciamo oggi era ancora di là da venire e, forse, anche la tristezza veniva vissuta con un filo di positiva in più, ma soprattutto ci si poteva concedere anche il lusso di fermarsi un momento, senza dover correre per forza da qualche parte. Era l’epoca del crocchio di amici che si ritrovavano lì senza nemmeno essersi dati appuntamento. Battuta di quelle ad effetto, aneddoto memorabile sul personaggio buffo conosciuto da tutti e poi, infine, il pezzo di pizza. La consumazione andava a costituire solo un segmento di quel rito collettivo che animava le giornate della pizzeria. Eleuterio aveva avuto l’idea di aprirla quando l’Italia andava a mille e sembrava che non dovesse fermarsi mai. Poi, anni dopo, si capì che se avesse corso di meno, l’Italia, avrebbe pure evitato di andare a sbattere contro un muro bello tosto. L’Italia andava a gonfie vele ed Eleuterio, giocando d’intuito, aveva deciso di salire su quel treno in corsa che avrebbe assicurato un po’ a tutti, per anni, prosperità e benessere. La pizzeria si trovava lungo una strada ad alta densità di traffico, nella parte bassa del paese, luogo di passaggio ci cui avrebbe risentito positivamente il locale, attraendo anche avventori forestieri. Una menzione particolare la meritava l’interno della pizzeria. Entravi e sulla sinistra faceva bella mostra di sé il glorioso flipper che, nel corso della sua esistenza, avrebbe vissuto suo malgrado migliaia di “tilt”! Una chicca assoluta era rappresentata dalla tabella attaccata alla parete, sulla destra per chi entrava, che indicava tutto ciò che era possibile consumare. A questo punto, si potrebbe obiettare:” E quale sarebbe la particolarità?”. Diamine, tutti i bar tutti i locali possedevano quel tabellone che indicava prodotti e prezzi. L’originalità della tabella della pizzeria di Eleuterio era rappresentata dalla pluralità di lettere mancanti e che, forse, non c’erano mai state. Il “fernet-branca” ne usciva mutilato, essendo scomparse nel nulla sia la “r” di “fernet” che la “a” finale di “branca”. Alla “pizza rossa” era scomparsa una delle due “s” e il Pinot di Pinot risultava mancante della seconda “t” del secondo “Pinot”. In tanti avevano notato lo strano fenomeno delle lettere scomparse o mai nate, e sicuramente anche Eleuterio, ma ormai la “tabella mutilata” era una perla, un autentico valore aggiunto e a nessuno sarebbe venuto in mente di apportarvi correzioni linguistiche. Il bancone pizza era in fondo, dopo aver superato quello del bar e le delizie che venivano sfornate in quella pizzeria erano da maglia rosa dalla prima all’ultima tappa. Qualche nutrizionista-salutista, oggi, storcendo il naso avrebbe frettolosamente bollato la pizza di Eleuterio come “eccessivamente pesante” o “non idonea al perfetto e giusto fabbisogno calorico giornaliero” o ancora “poco rispettosa della bio-alimentazione o del chilometro zero”. Resta il fatto che quella non era semplicemente pizza, piuttosto un concentrato di genuinità, di bontà, di sapori decisi e autentici. Ancora oggi, in molti ricordano quella irripetibile alchimia di gusto e di fragranza sublime e quegli stessi che la ricordano, pur avendo mangiato successivamente pizze buonissime, quella leccornia non l’hanno più ritrovata da nessuna parte. Quel pomodoro sugoso, con la bolla di olio a marcare la sua presenza e quella mozzarella di un bianco acceso per come era fresca, che sembrava essere stata colorata dal pastello “Giotto”. Quando Errica, la moglie di Eleuterio, sfornava la margherita e la collocava in quei testi neri, che ancora sembra di avere davanti agli occhi, pareva che fosse in corso una vera e propria eruzione vulcanica. Dovevi attendere qualche minuto e poi potevi gustarla in tutta la sua bontà. Caratteristico da morire, un tavolo di legno con annesse panche ugualmente in legno incastrato tra due colonne e posto vicino al banco pizza, per una maggiore comodità riservata a chi volesse degustare la pizza standosene beatamente seduto. Sempre nel locale principale, sul lato sinistro per chi entrava, un videogioco cabinato, per gli addetti ai lavori il classico coin-op da sala giochi che tanto andava in quel periodo dove dimentichiamoci per un attimo l’esistenza di Playstation e simili. Sui videogiochi si tornerà a breve, trattandosi di un capitolo della saga della pizzeria che non può essere liquidato in due battute. La saletta attigua registrava la presenza di altri coin-op da sala giochi e di un televisore posto in alto per una migliore visibilità. Anche il televisore, come i videogiochi sarà oggetto di specifica trattazione, perché la visione degli eventi sportivi passava quasi esclusivamente per quel tubo catodico. Tutti avevano ormai il televisore a casa, ma vederti la partita da solo a casa era di una tristezza infinita. Da “Gemma”, invece, sembrava che vedessi tutto con gli effetti speciali. Tutte le novità videoludiche passavano per la pizzeria di Eleuterio che era diventata meta e luogo di culto degli appassionati del genere. Forse, bisognava andare in un grande centro per trovare la stessa offerta. E dire che Eleuterio non era neanche un appassionato del settore. La qualità della gamma videoludica era impressionante. Trovavi tutti i generi: il picchiaduro fisso e a scorrimento, l’avventura grafica, lo sparatutto, i giochi sportivi e il glorioso flipper. In genere, gli amanti dei videogiochi trascorrevano poco tempo davanti al flipper che era un qualcosa di diverso e che si caratterizzava per avere i suoi fedelissimi che non giocavano con altro. Un flipperista in particolare sembrava possedere dei poteri magici. Ogni volta che la biglia di ferro sembrava prendere la via del canaletto laterale che avrebbe segnato la fine della partita Enzo, non si sa bene come, con un rapidissimo movimento di mani e di corpo salvava la situazione, impedendo alla biglia di uscire dal piano di gioco. Tra i videogiocatori, invece, c’era un ragazzo fortissimo in quasi tutti i coin-op e quando giocava lui si rischiava di rimanere a bocca asciutta, dopo ore di interminabile attesa. La sua superiorità videoludica era palese e negli altri ragazzi suscitava un misto di stranimento, per l’impossibilità di giocare, e di ammirazione per quel pischello che schivava tutti i colpi, conosceva tutte le mosse speciali e sapeva scovare sempre i trucchetti per sconfiggere i mostri finali. Inutile stare a citare tutti i titoli, mitici, con i quali centinaia di ragazzi si divertivano a giocare, tra socializzazione spensieratezza e adrenalina. Quando arrivò “Super Hang-on, però, fu un qualcosa di elettrizzante e innovativo. Il gioco della moto che quando inserivi il turbo vedevi le scintille dietro i tubi di scarico del bolide e ti sembrava di stare in pista con il cuore che pompava a mille, e poi il sonoro con il rumore del sonore semplicemente da urlo. Al posto del classico joystick, un vero e proprio manubrio, da sballo! Si diceva che la visione degli eventi sportivi alla pizzeria era una sorta di rito collettivo che sfociava quasi nella dimensione religiosa e che nessuno voleva perdersi. Dimentichiamoci per un attimo Sky e le altre televisioni a pagamento che ormai ti mostrano le immagini del calciatore anche in bagno. All’epoca i gol della domenica, tutte le partite si disputavano alla domenica, potevi vederli solo con il Novantesimo Minuto, gloriosa trasmissione RAI e allora alle 18 tutti in adorante attesa. I cronisti, Sandro Ciotti, Nando Martellini, Tonino Carino, Carlo Nesti e poi Bruno Pizzul sono rimasti indimenticabili per l’inconfondibile timbro di voce e per la loro davvero egregia padronanza del linguaggio. Le partite di Coppa, i Mondiali di calcio, ma anche le altre discipline come la prima vittoria agli Europei di pallavolo dell’Italia di Julio Velasco, quella indimenticabile “generazione di fenomeni”. I Mondiali di calcio erano un evento atteso come la manna dal cielo, tanto era il fascino e l’attenzione che catalizzavano. Arrivarono le notti magiche, quelle di Italia 90′, di Totò Schillaci, Baggio e di quel galantuomo da poco scomparso, Azeglio Vicini, che sapientemente rivestiva il ruolo di commissario tecnico. La semifinale contro l’Argentina, secondo i dati Auditel, è rimasto l’evento televisivo più seguito in assoluto da quando esistono le programmazioni televisive in Italia: ventisette milioni di persone incollate allo schermo, una cifra astronomica. Evento sportivo che si trasforma in un rito di popolo.Facevano parte, di quei ventisette milioni, anche decine e decine di persone assiepate nella pizzeria con le ultime sedie collocate letteralmente in strada. Almeno per un’ora e mezza non sarebbe passata anima viva. Tutti informatissimi, tutti a discutere del modulo tattico e tutti a domandarsi se anche in quella partita quel ragazzo siciliano, fino ad allora praticamente sconosciuto, avesse messo la sua firma vincente. Si sa che in occasione di eventi del genere, ci sono sempre quelle due tre persone che il calcio non lo hanno mai masticato in vita loro, ma di fronte a partite di pallone che assumono dimensioni planetarie, non vogliono fare la figura degli esclusi o degli snob. In un certo qual modo vogliono far vedere di esserci, di giocare un ruolo attivo, buttandosi nella mischia. Allora ecco che Filippo, notoriamente refrattario al calcio, quando le squadre stanno per entrare in campo, è combattuto tra l’osservare un silenzio privo di rischi ma del tutto passivo e lo scendere in campo con una domanda autorevole, da calciofilo della prima ora. Si fa coraggio e chiede ad un signore che, conoscendolo sapeva anche della sua preparazione del tutto inesistente sul mondo del calcio: “Alfré, ma chi gli marca Maradona?”, con un orgoglio nella voce come se stesse dicendo “Stasera conto anche io”. Alfredo, sornione e bischero non da poco, senza pensarci troppo, gli rispose: “Filì, ce prova Burruchaga a marcà Maradona”. Burruchaga, per chi non l’avesse ancora intuito, era un ovvio compagno di squadra del fuoriclasse argentino! E allora Filippo, che ormai aveva raggiunto il suo scopo e non pensando minimamente di essere stato macroscopicamente gabbato, si limitò a dire: “Grazie Alfré”. Anche questa era la pizzeria Gemma. Di aneddoti ce ne sarebbero a fiumi, ma uno può essere esemplificativo del clima generale di goliardia che animava quel luogo tra il magico e il profano, con venature sacre in occasione delle partite di calcio. Un giorno entrò in pizzeria un avventore di passaggio che andò diretto al bancone e che senza indugiare chiese: “Una Tassoni, per favore”. Si trovava momentaneamente a gestire il locale uno dei tanti amici di Eleuterio, il più buontempone, mentre Eleuterio e consorte sfornavano le pizze. Alla richiesta dell’avventore, Memmo aprì lo sportello inferiore, diede una rapida occhiata e poi rispose al tizio: “Guardi la Tassoni ce l’ho, ma ne ho solo una e non posso assolutamente dargliela, mi dispiace”. Il signore, non capendo effettivamente il senso bislacco della risposta, disse: “Mi scusi, ma io proprio una gliene ho chiesta, quindi va benissimo e me la dia”. Allora Memmo: “Forse non ha capito, il problema è proprio questo, ne ho una soltanto” al che, iniziando a spazientirsi, il cliente replicava: “Guardi, non ho tempo da perdere con le sue idiozie, mi dia questa maledetta Tassoni e basta!”. Memmo, che ci stava prendendo gusto man mano che l’irritazione del cliente saliva, decise di affondare il colpo, a rischio di prenderci le botte: “Forse non sono stato chiaro, ma non posso dargliela proprio perché è una e se la do a lei, al prossimo avventore, se dovesse chiedermela, cosa gli do?”. Allora il tizio urlando con quanto fiato aveva nei polmoni se ne andò sbattendo la porta, imprecando contro quel barista bizzarro e pure contro la Tassoni che, forse, non avrebbe mai più bevuto! Questo era il clima tipico, da “Amici miei” che si respirava alla pizzeria. Un regista di genere, alla Ettore Scola, dalle situazioni che animavano il locale ne avrebbe tratto un film di indiscutibile valore artistico. Per non parlare del grande scrittore bolognese Stefano Benni autore, tra gli altri, del leggendario “Bar sport”, se solo avesse vissuto la quotidianità di quel locale di culto degli anni ottanta, inizio novanta. La tifoseria della locale squadra di calcio si dava appuntamento proprio in pizzeria per poi andare allo stadio o dopo la partita per commentarla insieme, tra una pizza una coca-cola e una birra. Si formavano i vari gruppi davanti al locale, in base all’interesse condiviso: calciofili, appassionati di politica anche locale ovviamente, di ciclismo e di costume. Fu davvero un momento di dinamismo sociale e ricreativo che per intensità, freschezza e spensieratezza raggiunse picchi sublimi che mai nessun locale, anche di ottima qualità, avrebbe più toccato nel paese. Iniziavano a cambiare le abitudini, gli strumenti di socializzazione, più di qualcuno andava via dal paese per lavoro, altri mettevano su famiglia e ci si dirigeva lentamente, ma inesorabilmente, verso quella società decisamente spersonalizzata e poco spensierata, che è quella attuale, dove non di rado sei solo, pensando invece di stare al centro del mondo, tra apprezzamenti facili e frettolosi e faccine finte. Ma questo è un altro discorso. Come tutte le storie, anche quelle più avvincenti e ricche di pagine indimenticabili, anche quella della pizzeria volgeva al termine. La vita è piena di vicissitudini, di nuove sfide, di prospettive diverse e di un futuro tutto da vivere e da esplorare. E così anche Eleuterio, che sarebbe entrato nell’immaginario collettivo del paese, come uno dei suoi personaggi simbolo insieme alla sua amata consorte Errica, dovette prendere la decisione di scrivere la parola “fine” a quella struggente e goliardica epopea di sport, di cultura sociale, di umanità e di vita. Quella sera, l’ultima sera, mentre l’autunno stava per lasciare spazio all’inverno, facilitando la produzione di quella sana malinconia dei bei tempi andati, Eleuterio chiamò a raccolta un po’ tutti i frequentatori più assidui che veramente avrebbero lasciato per sempre una parte del proprio cuore tra quelle mura. Avevano risposto tutti all’appello, nessuno voleva mancare per stringersi intorno a quell’amico che dal nulla aveva creato un mondo fantastico, un paese parallelo che però si legava benissimo, incastrandosi a pennello, con quello reale come le tessere di un puzzle di indubitabile bellezza. Si scherzò per tutta la serata, si ricordavano gli episodi più esilaranti. Eleuterio, allora, fece a Memmo: “Certo che quella volta con la Tassoni la facesti proprio grossa!”, terminando la battuta con un sorriso e una pacca sulla spalla dell’amico fraterno. Poi, man mano che la serata andava avanti e volgeva al termine, venature progressivamente malinconiche connotavano le voci dei presenti. Era l’ora. Si salutarono e si abbracciarono tutti, occhi visibilmente lucidi. Eleuterio finse che doveva controllare dei documenti di chiusura del locale, ma si inventò il pretesto esclusivamente per restare cinque minuti solo. Gli altri capirono e lo salutarono, andando via. Quel locale, che per tutti gli anni della sua attività non aveva registrato un attimo di quiete ora, improvvisamente, sprofondò in un silenzio assordante carico di intensità emotiva. Eleuterio ispezionò per l’ultima volta la sua pizzeria e riscontrò tutto in ordine, tutto al suo posto. C’era un’ultima cosa da togliere e da portare via: una piccola cornice che lo ritraeva insieme alla sua amata Errica ad una gita, mai toccata dalla mensola dello scaffale fino ad allora, segno della condivisione di quella esperienza lavorativa, del loro amore e della felicità di una vita. Spense le luci, chiuse la porta a chiave e fece per abbassare la saracinesca. Sembrava più dura delle altre volte a venir giù, allora si fece coraggio e con maggior forza la fece scorrere fino alla fine. Si voltò e gettò l’occhio verso il campanile della chiesa parrocchiale: quindici minuti alle due. Si voltò per l’ultima volta verso la pizzeria, poi a rapidi passi si incamminò verso la piazza del paese e poi oltre. Quella notte non si poteva dormire, troppe emozioni in circolo, troppe immagini davanti agli occhi. Incrociò il fornaio del paese che andava a lavorare e che, sapendo della chiusura della gloriosa pizzeria, gli disse commosso: “Eleutè, con te finisce un’epoca”. Eleuterio gli sorrise, dicendogli “grazie” con gli occhi lucidi e proseguì il cammino, canticchiando quel motivetto che gli piaceva tanto.
L’alba, quella notte, avrebbe tardato ad arrivare.

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